Dopo quella di ieri ai danni di Report, altra “bufala” in Rete, oggi, ai danni di un organo di informazione. Stavolta è toccato al quotidiano economico Il Sole-24 Ore. Gli strateghi delle fake news sembra che continuino ad avere nel mirino l’informazione di qualità, con l’intento evidentemente di minarne credibilità e seguito.
A quanto pare siamo stati facili profeti, dopo il nostro articolo di ieri (leggi: Falso appello per Report: le “bufale” hanno sempre uno scopo. Perverso). Ci sono menti perverse, dotate degli strumenti tecnici per rendere virale una fake new, che cercano di mettere in crisi la credibilità e l’autorevolezza dell’informazione professionale. L’obiettivo è creare confusione tra le persone che, abituate ad alimentare i propri ragionamenti attraverso la lettura e l’analisi, cominciano a vedere messe in dubbio le loro certezze sull’autorevolezza delle loro fonti sul web.
Non si tratta, come scrivevamo ieri, dei soliti sprovveduti che condividono qualunque meme o fake new passi sulla loro home, ma persone che ragionano e sono attente alle problematiche sociali. Molte di queste persone, in perfetta buona fede, sono cadute sia nella trappola della “bufala” di ieri su Report, sia in quella di oggi su un inesistente articolo, diffuso sui social, del Sole-24 Ore. Tanto che la stessa testata economica, nell’articolo (vero) in cui denuncia di essere stata vittima di una fake new (leggi: Attenzione: gira una notizia fake attribuita al Sole 24 Ore) rimarca (con una certa vena polemica): «La schermata che gira in rete è una riproduzione abbastanza fedele dei post autentici condivisi dal Sole 24 Ore su Facebook, e questo può aver tratto in inganno i lettori, meno avrebbe dovuto i professionisti del giornalismo che dovrebbero avere gli strumenti per fare queste semplici verifiche».
Una coincidenza, quella delle due “bufale” l’una di seguito all’altra ai danni di autorevoli organi di informazione, che dovrebbe far pensare. Come scrivevamo ieri, viene infatti da pensare che qualcuno voglia instillare il dubbio sull’autorevolezza delle proprie fonti nella mente di chi non è certo abituato a condividere qualunque cosa sia gettata in pasto ai social. L’autorevolezza dell’informazione giornalistica è un patrimonio, per la democrazia, di serietà e di profondità di analisi al servizio di molti utenti non superficiali del web. Le “bufale” di ieri e oggi sono indizi inquietanti di una strategia delle “fabbriche di fake news” di minare l’autorevolezza dell’informazione giornalistica in Rete?
«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», diceva Agatha Christie. In attesa di vedere se arriverà il terzo indizio, sarebbe il caso di destare l’attenzione di tutti sulla necessità di difendere l’informazione online di qualità.
Giornalista professionista freelance. Dal 1983 collaboratore di testate locali e nazionali dai Castelli Romani per cronaca e sport. Presidente e docente dell’Università Popolare Castelli Romani, Ente terzo autorizzato dal Ministero della Giustizia alla Formazione professionale continua per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Consigliere dell’Inpgi e dell’Associazione stampa romana.
Massimo.quella su Report che mi ha ingannato almeno era a fin di bene visto il seguito.poi che Report non sia a rischio ho dei dubbi, vedi il pezzo (mi pare de il Fatto) di alcuni giorni fa. Notte😎
Caro Marcello,
Il fatto che si possa ipotizzare la legittimità di una categoria di “bufale a fin di bene” mi inquieta molto. Le bufale sono sempre e comunque un inganno ai danni dell’opinione pubblica. Inganno, cosa ancora più grave, deliberato.
L’eventuale legittimazione lascerebbe anche pericolosamente aperta la questione di chi sarebbe autorizzato a stabilire quale potrebbe essere il fine di bene. E, poi, bene per chi? I punti di vista sono, per loro natura, relativi; quindi il bene è un concetto che, al di là delle questioni filosofiche, giuridiche e storiche, viene risolto in maniera spicciola da parecchi identificandolo con il proprio. E quindi il bene potrebbe essere anche la convenienza nell’affermazione delle proprie idee a scapito della corretta analisi e della libera formazione del convincimento da parte dell’opinione pubblica.
Sul caso specifico della bufala su Report, poi, penso che non sia stato dato adeguato peso a due circostanze che la caratterizzano: la viralità e la fonte.
In merito alla viralità, diffondere capillarmente una notizia come quella, con tanto di post copia-incolla su Facebook, e per di più utilizzando anche un mezzo molto personale e invasivo come WhatsApp, implica una organizzazione che non può avere un singolo e neanche un gruppo di pressione a sostegno della libertà di informazione o a difesa del valore del programma, posto sotto attacco dai suoi detrattori. Questa forza organizzativa e operativa può averla, invece, un’organizzazione come quelle che da anni, ormai, riempiono i social (e di recente anche la messaggistica istantanea personale, quindi avendo a disposizione recapiti telefonici privati da cui iniziare la “catena di sant’Antonio”) di messaggi propagandistici e notizie non verificate, per lo più bufale o mezze verità a cui vengono legati fini strumentali.
Quanto alla fonte, ci siamo chiesti da dove sia partita questa bufala? Come mai nessuno lo sa? Se fosse partita da una persona, da un’associazione di consumatori, da un gruppo di pressione sociale, da cittadini mobilitati a difesa di Report, avremmo un soggetto con cui confrontarci per capire movente e finalità di quella comunicazione, poi rivelatasi basata su presupposti falsi. Il fatto che, come quasi sempre succede nel caso di bufale, la fonte non sia identificabile, e con essa anche a chi giova la diffusione della fake new, dovrebbe aggiungere dubbi e inquietudini alle nostre riflessioni.