Ancora oggi, nell’era dei social e di internet, sono moltissimi i giornalisti, il più delle volte pubblicisti, che “presidiano” il territorio della provincia informando i lettori, anche di importanti testate nazionali, su fatti di cronaca locale. Capita, purtroppo di frequente, che l’attività di questi giornalisti sia regolata da contratti di collaborazione che prevedono retribuzioni molto basse e non concordate. In pratica, una sacca di precarietà che colpisce quei giornalisti che lavorano al di fuori delle redazioni centrali.
Proprio questa “esternalità” può far ritenere che il rapporto di lavoro con la testata non possa che essere autonomo anche quando magari si prendono delle direttive da parte di un capocronista o si prende parte alle riunioni di redazione. Sul punto si è espressa di recente la Corte d’Appello di Roma che ha emesso una sentenza che ha riconosciuto ad un gruppo di giovani giornalisti che seguivano la vita di alcune piccole città del Nord Est il ruolo di “corrispondenti” ed accertando anche la natura subordinata del rapporto di lavoro.
La vicenda nasce a seguito di una ispezione dell’Inpgi presso un editore che verificava che i rapporti di collaborazione instaurati con un gruppo di giornalisti risultanti iscritti all’Albo o al registro dei praticanti nascondevano in realtà un rapporto di lavoro subordinato. Il tribunale di primo grado concedeva all’ente di previdenza un decreto ingiuntivo per il recupero dei contributi dovuti avverso il quale l’editore avviava un giudizio di opposizione che si concludeva con la sua condanna.
Il proprietario della testata decideva così di impugnare la sentenza davanti alla Corte d’appello romana che, pur confermando in parte la sentenza di primo grado, rigettava il ricorso sulla base delle testimonianze secondo le quali i collaboratori esterni concordavano i pezzi con i redattori capo, trasmettevano alias articoli tramite la rete aziendale e che in caso d’impedimento a svolgere la loro attività erano tenuti ad avvisare la redazione. Di più, interi territori venivano “coperti” dalle loro corrispondenze con la retribuzione agganciata al numero degli articoli pubblicati. La subordinazione veniva accertata dai giudici anche per il fatto che i giornalisti spesso erano presenti in redazione per incontri, e per l’espletamento di determinati servizi stabiliti dai redattori capo.
La Corte d’Appello, inoltre, dichiarava loro anche la qualifica di “corrispondenti” sulla base dell’art. 12 del contratto nazionale. Scrive il giudice romano che “il corrispondente lavora in una sede chiamata ufficio di corrispondenza intesa quale “organizzazione del lavoro del giornalista nel suo collegamento continuo con la redazione principale” specificando che “ gli uffici di corrispondenza sono le sedi istituite in una città diversa da quella che ospita la redazione centrale della testata nelle quali si raccolgono e vengono coordinati gli elementi forniti da corrispondenti e informatori che poi vengono trasmessi alla redazione stessa”. Confermando la qualifica di corrispondenti, pertanto, la Corte d’appello capitolina spiega che “ i giornalisti, pur non svolgendo quotidianamente la loro attività, certamente operano con continuità. Dalle deposizioni emergono gli elementi caratterizzanti tale qualifica cioè la continuità delle prestazioni, una specifica area di informazione, la redazione sistematica degli articoli”.
Avvocato e giornalista pubblicista.
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