Succede in un Paese che ha conquistato civiltà e democrazia grazie ai sacrifici e al sangue di tante persone, molte delle quali donne (in una giornata come quella di oggi, più che mai, bisogna non scordarsi di rimarcarlo), che a un certo punto della propria storia venga instillata nell’opinione pubblica la convinzione che avere un’ideologia, un progetto di società, sia un inutile orpello e un dannoso retaggio del passato.
Succede che a furor di popolo si imponga una svolta epocale nella scelta della classe politica: non più selezione attraverso la militanza e la formazione ad opera dei partiti, ma grazie al senso di “vicinanza” e alla capacità di ottenere visibilità dei singoli. Succede che conseguenza di questa scelta sia l’avvento di un’intera classe dirigente, non solo in politica ma anche nei gangli vitali della società, per la quale l’immagine e il continuo sondaggio degli umori viscerali della massa prendano il posto della competenza, dello studio, del senso di responsabilità e dello spirito di servizio.
Succede che per consolidare e poi mantenere questo stato di fatto vengano sviliti e svuotati la scuola, l’università e i presidi culturali, mentre vengono privilegiati slogan e concetti base, slegati dall’analisi fattuale e concettuale. Succede che tutto questo comporti la perdita della capacità, nella grande massa delle persone, di mettere in collegamento fra loro diversi concetti, l’incapacità di comprendere il significato di testi anche elementari, l’abbandono di una coscienza collettiva, la crescita del tasso di analfabetismo funzionale.
Succede che, messe da parte ideologie, competenze e cultura, che sono le basi del compromesso sociale, prevalga l’individualismo sfrenato. Succede che di conseguenza l’opinione pubblica accetti serenamente di non poter più esprimere scelte politiche con il voto, limitandosi ad un plebiscito sulle candidature volute dai leader, di vedere drasticamente ridotta la rappresentanza politica negli enti locali, che storicamente hanno rappresentato la fase di avvicinamento alla gestione della cosa pubblica e di formazione politica delle future classi dirigenti, e arrivi pure a credere sia un atto di civiltà quello che è un attentato all’esercizio della democrazia rappresentativa, com’è un provvedimento che vuole tagliare la rappresentanza parlamentare e intende mettere così nelle mani di un’oligarchia autoreferenziale tutte le decisioni.
Succede che l’unità nazionale, patrimonio indiscutibile conquistato dopo secoli di lotte, venga invece impunemente messa in discussione, a tal punto che gli impulsi territoriali antisistema divengano in breve tempo nuovi valori. Succede che individualismo, territorialismo e perdita della capacità di ragionamenti complessi si risolvano in un conflitto di tutti contro tutti: nord contro sud, uomini contro donne, giovani contro anziani, lavoratori in attività contro disoccupati e pensionati, residenti contro immigrati… Succede che l’aggressione verbale diventi metodo accettato di confronto a qualunque livello. Succede che il disconoscimento dell’altro e dell’autorità arrivino a permeare la società.
Succede che la divisione del territorio diventi la normalità anche per la gestione di un bene comune primario come la sanità. Succede che ogni territorio abbia il proprio modo di gestire la salute della popolazione, quando invece le malattie non conoscono confini.
Succede che un governo, quando deve emanare un provvedimento senza precedenti sulla salute dei propri concittadini che ha potenzialmente forti ricadute sulla sicurezza sociale, senta di dovere, in virtù dell’autonomia concessa ai territori, ascoltarne il parere preventivamente rispetto alle scelte di sicurezza nazionale. Succede che chi gestisce la comunicazione istituzionale e politica in uno dei territori più esposti, evidentemente cresciuto nell’era in cui si postano sui social anche fatti personali senza alcuna considerazione per le conseguenze, ritenga di fare bella figura o di ricavarne profitti politici passando alla stampa la bozza su cui il governo ha chiesto il parere.
Succede che degli operatori dell’informazione, formati anch’essi nell’era del “tutto libero” dei social, ricerchino l’effimera gloria del primeggiare a tutti i costi rispetto a uno degli insegnamenti di base che, in tempi ormai andati, i vecchi cronisti di esperienza impartivano agli allora giovani alle prime armi: se l’informazione che qualcuno ti ha dato solo per “fare bella figura” con te può creare danni alle persone, te la tieni fino a quando può essere davvero di pubblica utilità. Succede che in virtù di quelle prime voci migliaia di persone, tutte insieme, dimostrino di aver perso, dopo tutto ciò che è successo nel Paese come raccontato sopra, la elementare consapevolezza che i comportamenti individuali fanno la somma del comportamento collettivo: la coscienza (o l’incoscienza) sociale di fronte a un’emergenza inedita, in questo caso.
Succede in Italia: nel mio Paese, nel quale voglio allevare mia figlia (e in una giornata come quella di oggi me lo dico con più forza) come una donna capace di esprimere liberamente le proprie attitudini in una società civile. O, meglio, che torni ad esserlo.
Giornalista professionista freelance. Dal 1983 collaboratore di testate locali e nazionali dai Castelli Romani per cronaca e sport. Presidente e docente dell’Università Popolare Castelli Romani, Ente terzo autorizzato dal Ministero della Giustizia alla Formazione professionale continua per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Consigliere dell’Inpgi e dell’Associazione stampa romana.
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